Scelte, non scelte, abitudini.
Dopo attenta considerazione e arrovellamento continuo sugli accadimenti che mi circondano, la conclusione è stata che il destino non esiste e che la sua ipotetica esistenza non avrebbe rilevanza alcuna nelle scelte che compiamo tutti i giorni. Il destino ce lo costruiamo noi, forse anche una serie di episodi che ci toccano o che solo ci sfiorano appena contribuiscono alla sua evoluzione, eppure siamo noi che ci troviamo nel dato posto al dato momento. Il modo in cui noi agiamo e reagiamo segna il nostro avvenire: qualsiasi identità abbia questo fantomatico destino, è comunque strettamente soggetto alle decisioni che ognuno di noi prende, una per una. Quindi, ha poi tanto senso parlare di destino? In ogni caso, no.
Di scelte noi umani (anzi, noi esseri viventi, con tutto ciò che questo possa voler dire) ne compiamo un sacco spesso durante la nostra vita: si potrebbe dire più o meno ogni istante, quello stesso che basta per farci cambiare idea o per farci ricordare una cosa dimenticata. Facciamo scelte in ogni caso, anche quando scegliamo di non scegliere. Non scegliere è un po’ come giocare d’azzardo, si lascia decidere agli altri: una volta va bene e una volta va male, una volta sceglie una macchinetta e una volta sceglie una persona. Entrambe al posto tuo, ma pur sempre per tua responsabilità.
L’essere umano è un animale abitudinario (come credo la maggior parte dei suddetti esseri viventi), ovvero tende a ripetere le stesse scelte ogni qual volta esse risultino produttive (e talvolta, purtroppo, anche quando non lo risultano affatto). A meno che uno non sia un po’ genio o un po’ folle (e la linea che li separa è così sottile che tante volte non si riesce a distinguere) ci si ritrova mediamente agglomerati in quella bestia letale che è l’abitudine. L’abitudine è un po’ come una droga o comunque sia una forma di dipendenza, che si basa unicamente su ciò per cui abbiamo provato piacere senza concentrarsi sulle circostanze esterne. Abitudine è una parola orrenda. Provate a ripeterla a voce alta, in tutti i suoi possibili contesti e tempi verbali: vi risulterà inascoltabile, talvolta anche impronunciabile (provatela all’imperativo della prima persona plurale, quello è il peggiore). L’abitudine è la situazione che ci spinge ogni giorno a indossare lo stesso abito senza badare al tempo che c’è fuori. Alla fine, anche abituarsi è una scelta.
Potenzialmente ognuno di noi è in grado di fare qualsiasi cosa su questo in fondo piccolo pianeta, basta adoperarsi per compierla. Certo col tempo le nostre decisioni possono restringerci la strada, e l’abitudine è la via più breve e diretta per eliminare talune possibilità. Più noi ci abituiamo a qualcosa (qualunque cosa), più questa prende il posto di tante altre piccole o grandi alternative. L’abitudine è comoda e poco faticosa quando si tratta di seguirla, ma è inutile e talvolta nociva quando si tratta di subirne le conseguenze o le restrizioni. L’abitudine è una piovra nera che ti stringe e ti blocca gradualmente ogni movimento o cambiamento, forse mai fino alla stasi totale, ma sicuramente ci va molto vicino. L’abitudine è il male più grande della società moderna, al di là delle cosiddette abitudini buone o cattive. Io non credo che ci sia, di fondo, una sostanziale differenza tanto da meritarsi due diversi termini. Ciò che cambia non è la natura dell’abitudine, ma le circostanze in cui si sviluppa e le conseguenze che poi riesce a portarsi dietro. Il suo potere vincolante è completamente avulso dagli ipotetici effetti positivi che un’abitudine può riscontrare. Anche non scegliere, in fondo, è un’abitudine.
La facoltà di non scegliere è quella che si sfrutta mediamente durante l’infanzia, in cui spesso i nostri genitori scelgono per noi, sia per motivi tecnici che di praticità. Come tutte le abitudini, quella di non scegliere è facilmente eliminabile con un semplice sforzo di volontà applicata continuamente. Più il cambiamento è continuo e intenso, più l’abitudine sparirà in fretta. Più gli sforzi saranno scostanti e sporadici, più la bestia abitudinaria che alberga dentro di noi sarà dura a morire. L’abitudine non è un nemico che si può combattere poco per volta, i colpi vanno infertogli tutti insieme uno dietro l’altro, fino a quello di grazia che la farà soccombere. Ogni pausa è un medicinale ricostituente per la sua sopravvivenza. Alla fine, vere scelte e vere abitudini non vanno d’accordo: o c’è l’una, o c’è l’altra. Non possono essere presenti entrambe.
La vita non si sa bene cosa sia: qualcuno sostiene che sia una serie di problemi da risolvere, qualcun altro propende per una serie di scelte concatenate. Alcuni riducono la vita alla facoltà di ragionare, altri ai funzionamenti organici che il nostro corpo attua di continuo, con o senza la nostra supervisione. In fondo non è importante realmente cosa essa sia, quello che importa è il nostro modo di affrontarla o voltarle le spalle. Concepire la vita per esempio solo in ambito sociale (e cioè come lavoro, produzione, efficienza, guadagno) non è solo riduttivo, ma anche deleterio per la nostra capacità di attuare scelte all’interno di diversi e svariati ambiti. Concepire la vita solo come condizione sociale (e così per ogni altra restrizione) significa eliminare ogni altra opzione dal nostro campo visivo e, più in generale, esistenziale. Significa, cioè, abituarsi. Abituarsi a un’ottica, a una ragione, a un modello di vita che ogni giorno diviene più forte a scapito della sua sensatezza e della sua produttività. Non fermarsi a un modello, cambiare idea, trovarsi in disaccordo, evolvere i concetti e le opinioni sono azioni che aiutano a tenere a bada l’abitudine e che aprono strade altrimenti impercorribili.
Se vogliamo proprio guardare certi concetti da una prospettiva sociale, si potrebbe dire che una delle nostre più grandi abitudini di scelte mancate sia proprio quella della legge e della storia che l’ha creata. Quante volte si porta in alto la legge come fosse il verbo divino, solo parzialmente coscienti della sua natura umana e dunque fallace. Quante volte il fardello della storia (che, raramente si dice, è solo un’interpretazione di ciò che forse è stato) ostacola i nostri impeti di piccoli ribelli, accogliendoli nelle certezze del già fatto e del già tentato. Una forma di memoria che sa più dell’oblio che della conoscenza. Un inibitore di tentativi, tentazioni, turbamenti. Sapere che c’è sempre stato un qualche potere (centrale o periferico) nella storia dell’uomo non è forse una giustificazione ingiustificabile di quanto accade anche ai giorni nostri? Sapere che un tempo le leggi fossero più ingiuste e imperfette di oggi non è forse motivo di un immeritato sollievo che ci aiuta nella nostra ricerca dell’eterna abitudine? Non è forse una distrazione da ciò che è, sarà, e potrebbe essere? Una distrazione da ciò che siamo e facciamo, ecco a cosa si riduce la storia: una sorta di destino campato un po’ per aria e un po’ per fiumi che ci portiamo dietro nelle nostre coscienze atrofizzate. E’ come un’accogliente depressione di cui non si capisce il motivo, in cui affoga ogni nostra azione o reazione. In fondo, anche la scusa della legge e della storia è una nostra abitudine alla non-scelta.
Scegliere è importante per tutti, ne va del nostro personale destino (se proprio così lo si vuole chiamare). Soprattutto è importante essere abituati a farlo, a ponderare le opzioni mettendole a confronto tra loro e poi con l’infinito assoluto. Dite a una persona non troppo forte di carattere che la sua opinione è un’idiozia, e con ogni probabilità il processo di autolesionismo o auto-ammutinamento avrà già iniziato la sua lenta crescita all’interno dell’individuo. Fatele credere che la sua opinione non è ben accetta e neanche lei avrà più buona stima di ciò che realmente pensa: affidarsi all’opinione degli altri non solo sarà più facile, ma la farà anche sentire protetta dagli attacchi esterni.
In quest’ottica, non credo che esistano scelte giuste o scelte sbagliate. Esistono scelte efficienti, inutili o addirittura controproducenti. Quando si tratta di scelte più complesse, poi, possono essere efficienti in un campo e al contempo controproducenti nell’altro, e già la differenza fra “giusto” e “sbagliato” si rende più ambigua. Per parlare in termini più concreti, qualcuno potrebbe dire che votare Berlusconi per tutti questi anni è stato controproducente per l’italia e quindi una scelta che può tranquillamente dirsi sbagliata. Indubbiamente in termini assolutistici è cosi, ma noi non sappiamo cosa sarebbe successo se al posto di Berlusconi ci fosse stato qualcun altro: forse sarebbe stata la stessa cosa (e quindi la scelta di votarlo sarebbe risultata inutile) o forse sarebbe stato addirittura peggio. Io, che non ho la sfera di cristallo (e neanche la macchina del tempo per far cambiare idea agli italiani) non saprei proprio dirlo. Quello che so dire è che io non l’ho votato, e non ho votato neanche chi negli anni ci si è schierato contro perché chiunque fosse non è stato capace di rendersi, ai miei occhi, abbastanza migliore del suo dichiarato rivale. Non ritenevo la mia opinione rilevante ai fini dell’esito delle elezioni, ho giocato d’azzardo a una partita che già sapevo avrei miseramente perso in ogni caso. Non me ne pento, ma non è mia abitudine non esprimere preferenze. Forse non me ne pento proprio perché non è un’abitudine.
Meno possibilità di scelta si hanno a disposizione, più solitamente la decisione risulta facile da prendere e al tempo stesso meno importante e valutata. Nella nostra democrazia noi possiamo scegliere chi dovrà stendere e votare le leggi, un po’ pochino se comparato alle infinite possibilità del mondo politico e legislativo. In questi termini, noi popolo siamo il bambino che sottostà obbediente alle decisioni dei genitori (salvo che, contrariamente alla normalità, i genitori abbiamo la possibilità di sceglierli buttando qualche foglio nelle urne). Poi, una volta scelti i genitori, siamo tenuti a seguire le regole che loro tutti insieme (un’orgia di genitori) decidono per noi, ovviamente comprese le regole dei genitori precedenti, se quelli nuovi non si prendono la briga di eliminarle ufficialmente. L’alternativa è l’illegalità, la violenza, l’anarchia. O al massimo, si può sempre scappare di casa se la situazione diventa troppo soffocante e le circostanze lo rendono possibile. Ovviamente, il tutto con gli innumerevoli rischi che ne conseguono.
Vari studi comportamentali hanno dimostrato che mediamente l’uomo è restio a prendere l’iniziativa quando (per esempio) si tratta di salvare qualcuno che è caduto in un fiume. Basta però che anche solo uno di loro (il “genio” o il “folle” della situazione) si butti nell’acqua, per rendere tutti un po’ più coraggiosi e volenterosi di darsi da fare. Questo significa che in determinate situazioni molti di noi non sono in grado di attuare una scelta in modo lucido e logico, non sono in grado di compiere un’azione che non ha già provato qualcun altro, ma sono sorprendentemente addomesticabili se solo si offre loro l’esempio giusto da seguire. Questa tendenza fa sempre parte, secondo me, del filone delle maledette abitudini, del gioco d’azzardo e della dipendenza (che sia da una droga o dalle azioni degli altri, non fa differenza).
Checché uno possa dirsi disinteressato di fronte alle altrui opinioni, anche quelle sono importanti: d’altronde, è ascoltando i nostri genitori che siamo cresciuti imparando a parlare e a fare tutto ciò che viene dopo. L’ascolto e la comprensione è il primo mezzo con cui entriamo in contatto (corpo fisico a parte) con il resto della popolazione che ci circonda. Spesso i genitori finiscono per insegnarci cosa è giusto e cosa è sbagliato, o comunque (direttamente o indirettamente) cosa conviene o non conviene fare. Spesso il bambino ripete ciò che ha sentito dire dal padre o da un suo amichetto, anche se non è pienamente consapevole di ciò che sta ripetendo (io ci ho lanciato la prima bestemmia, in questo modo). Insomma, impariamo emulando. E per emulare serve prima guardare e ascoltare. In questi termini, si potrebbe dire che ogni opinione ascoltata nella nostra vita ha, volente o nolente, un effetto imprescindibile su di noi. Ciò che ascoltiamo alla televisione lascia un’orma nel nostro sapere, più ancora quando siamo bambini ancora malleabili, un po’ meno quando siamo adulti e in qualche modo più formati per via delle nostre abitudini che ci rendono rigidi e poco elastici nei confronti dei cambiamenti.
Aggiunta di due mesi dopo:
…e quindi? Dove volevo arrivare? L’ho lasciato incompleto
per scelta, perché non è mia abitudine farlo.